La formazione? Il lavoro più bello del mondo

Mezzora con Barbara Pizzuco, responsabile Formazione in Fondazione Don Gnocchi, per raccontare il mondo dell’apprendimento nel settore della sanità, approfondire le opportunità del digitale e augurarci un futuro consapevole, multiforme e…vicinissimo!
2 Aprile 2025
Tempo di lettura: 6 minuti

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Sommario

C’è sempre un banco di mezzo. Che sia quello di scuola, a sostenere il peso dei libri e dei sogni, che sia la scrivania dell’ufficio su cui si appoggia lo schermo di un’aula virtuale, che sia quello – metaforico – di una scommessa che ogni giorno muove chi lavora nel mondo della formazione: l’ingaggio e il coinvolgimento reale dello studente.

Barbara Pizzuco, responsabile servizio Formazione della Fondazione Don Gnocchi, quel banco l’ha adorato fin dal principio e continua, ogni giorno, ad apprezzarlo. “Perché noi, davvero, facciamo il mestiere più bello del mondo” sostiene convinta, con quell’energia tipica di chi crede sul serio in quello che dice.

Partiamo da lei – e forse non è un caso – per raccontare il mondo della formazione con una serie di interviste a chi, come noi, nel mondo della formazione lavora e cresce, un giorno dopo l’altro.

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Ci racconti chi sei e che cosa fai?

«Difficile condensare trent’anni di lavoro in pochi highlights. Partiamo dicendo che fin da quando andavo a scuola, ho sempre avuto il pallino della formazione: mi è sempre piaciuto moltissimo imparare. Ho lavorato tantissimi anni in sanità, nello specifico, per tanto tempo, nel contesto di un grande Policlinico universitario romano, gli ultimi 10 dei quali occupandomi proprio di formazione aziendale. Poi ho avuto un periodo da consulente, per cui ho avuto esperienza anche in realtà organizzative molto diverse, le più disparate, dalle raffinerie all’alta gioielleria, agli enti pubblici di varia natura. Da pochi mesi sono tornata a occuparmi di formazione in un contesto sanitario. Cosa ho capito? Che la formazione è una leva fondamentale per la crescita, in un contesto come quello attuale, in cui il cambiamento è all’ordine del giorno, ma non è sufficiente. È un ingrediente importante di una ricetta un pochino più complessa e articolata».

Nella vostra realtà nello specifico, e nel vostro settore in generale, quindi, che ruolo ha la formazione e come si inserisce nella “ricetta”?

«Tasto dolente. In sanità, la formazione è proprio parte integrante della professione, è abilitante per le professioni sanitarie, quindi, tanta formazione che si svolge in sanità è collegata ai crediti ECM (Educazione Continua in Medicina) e questo, che dovrebbe essere un elemento di propulsione importante, per certi versi, però, rischia di diventare un freno».

In che senso?

«Vado senza filtri: spesso il professionista sanitario vive l’acquisizione del credito ECM solo come un obbligo. E a volte si trova a svolgere un corso senza essere realmente interessato all’argomento, ma solo perché è chiamato a farlo. La vera sfida, a livello di azienda sanitaria, è aiutare i professionisti sanitari a raggiungere questo obiettivo del completamento dei crediti attraverso percorsi formativi che siano effettivamente funzionali allo sviluppo del professionista come singolo, ma anche e soprattutto del professionista in un contesto organizzativo, quindi riuscire a strutturare dei piani formativi strutturati in ottica di team di lavoro, di equipe multidisciplinari e di sviluppo di competenze, non esclusivamente tecnico professionali, ma anche di competenze soft e trasversali».

L’utente deve stare al centro, in altre parole…

«Io preferisco parlare di persone, più che di utenti. E adesso ti spiego perché sono davvero convinta che noi che ci occupiamo di formazione nel settore della Sanità, facciamo il mestiere più bello del mondo. Ogni giorno, siamo chiamati a ragionare sulla doppia prospettiva di persona: la persona che noi formiamo, il professionista, e la persona sulla quale poi il professionista esercita la propria competenza, il paziente. Attraverso le azioni che migliorano le competenze dei professionisti sanitari, in realtà raggiungiamo un obiettivo ad elevatissimo impatto sociale e questa è una cosa, dal mio punto di vista, meravigliosa».

target formazione

Una bella responsabilità…

«È difficile, sì, perché non è banale identificare il corretto obiettivo formativo. Ecco la vera sfida. Dal mio punto di vista, è importante non farsi trascinare dall’eccesso di tecnicalità, ma cercare di andare oltre. Ok questa tecnica, questo approccio clinico, assistenziale, terapeutico. Ma chiediamoci poi come questo trasforma l’esperienza di cura delle persone per ricostruire, a ritroso, il percorso formativo. Questa è la vera difficoltà del nostro mestiere».

Come trasformare, quindi, ciò che è di fatto un “obbligo” in opportunità?

«Non possiamo nasconderci dietro a un dito. Gli obblighi formativi occupano un buon 65% delle ore del piano formativo. Se però il programma, anche di formazione obbligatoria, viene sviluppato in una modalità interattiva, “leggera”, con una serie di stimoli diversi, allora può diventare in realtà un’esperienza piacevole. Quindi, il primo passo è ristrutturare i programmi formativi in modo da renderli non solo frontali. Per allontanarci da quella comunicazione monodirezionale, da quei webinar devastanti in cui c’è un docente che parla e 400 persone che ascoltano senza possibilità di interazione, ma riprogrammando la formazione attraverso strumenti che ci consentano un approccio diverso, più fresco. E come si fa a fare in modo che questa esperienza piacevole si diffonda? Come si è sempre fatto: con il passaparola. Con degli ambassador interni. Come se fossero degli influencer interni nell’organizzazione, che attraverso il passaparola riescono a cambiare l’approccio con il quale le persone partecipano agli eventi formativi».

In questo senso la formazione digitale che opportunità può garantire? E voi come la applicate?

«Fondazione Don gnocchi ha 25 centri, più 28 ambulatori sparsi in 9 regioni italiane. Per noi sarebbe impensabile non appoggiarci alla formazione digitale. Che poi,  la formazione digitale è tantissime cose diverse: la formazione asincrona, su piattaforma, i webinar, le piattaforme interattive non formalizzate, spazi collaborativi da remoto. La mia sfida, uno dei miei obiettivi, è proprio quello di utilizzare tutti questi strumenti secondo un principio che sia, innanzitutto, di coerenza. In questo senso, anche se ho superato i 50 anni, mi sento un po’ un’innovatrice (ride, ndr.), tanto che ho anche un insegnamento universitario sulle “Metodologie didattiche innovative”. È la mia passione, il mio pallino».

Storyboard E-learning social

C’è ancora la sensazione che la formazione digitale sia una formazione di serie B?

«Un po’ sì, ma dipende da quello che si propone. Mi spiego: se penso a contenuti formativi proposti anche da eminenti ordini professionali, mi viene un po’ da sorridere, un po’ da piangere, perché spesso sono dei banali slideshow, a volte nemmeno vocalizzati. Qual è la differenza tra questa fruizione e la lettura di un articolo scientifico? Qualcuno me lo deve spiegare. La percentuale di contenuto che tu trattieni dopo aver partecipato a un evento formativo di questo genere, a distanza di due settimane, un mese, sei mesi, è veramente molto bassa».

Di contro, invece, ci sono anche proposte interessanti, vero?

«Esatto, ci sono delle soluzioni formative molto ingaggianti nelle modalità, anche attraverso l’utilizzo di piattaforme E-learning che consentano, attraverso dei piccoli contest, dei giochi, un approccio di gamification stimolante, capace di rendere la formazione efficace, coinvolgente».

Il gioco nella formazione, in special modo sanitaria, fa ancora storcere il naso a qualcuno?

«Eccome. Talvolta c’è ancora un po’ di diffidenza. Ma pian piano ci arriveremo…»

Dai allora facciamo un gioco. Io ti dico tre parole, tu dimmi quello che vuoi: microlearning, storytelling, gamification.

«Il microlearning per me è una sfida importante. Vorrei introdurlo in una fase di verifica post corso, per il consolidamento dell’apprendimento, per poi, via via, sdoganarlo come metodologia (molto utile per alcune tematiche specifiche, procedurali, ad esempio).
Lo storytelling è sicuramente un elemento chiave nella comunicazione, ma anche nelle progettualità di corsi che mirano ad avere un impatto sullo sviluppo di figure chiave e su quelle che non amo chiamare soft skills – perché di soft hanno molto poco – ma che  anzi sono il pilastro del professionista sanitario.

Per quanto riguarda la gamification, come dicevo, credo si debba scontare ancora un gap culturale importante, quindi tendo a muovermi con molta cautela; ma in prospettiva ci sarà da lavorare. Con la generazione Zeta, soprattutto. Non manca poi molto anche all’ingresso della generazione Alpha nel mondo del lavoro, se ci pensiamo».

A proposito di futuro, in che direzione vorresti si muovesse il nostro settore?

«Vorrei che davvero si andasse nella direzione di considerare la formazione come investimento e non come costo. Vorrei coerenza tra gli obiettivi strategici delle organizzazioni e i piani formativi messi in campo, che significa anche risorse coerenti con gli obiettivi che si vogliono perseguire. Viviamo un’epoca senza precedenti per possibilità di accesso alla conoscenza, e alla luce di questa grande opportunità, bisognerebbe tutti convincersi della necessità di fare network, fra aziende e provider di formazione per realizzare dei programmi formativi che mettano insieme diversi stimoli, diverse fonti, diverse modalità e diversi approcci».  

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